TRANSUMANZA

QUESTO BLOG E' IN VIA DI SUPERAMENTO. NE STIAMO TRASFERENDO I POST MIGLIORI SUL SITO DI VIVEREALTRIMENTI, DOVE SEGUIRANNO GLI AGGIORNAMENTI E DOVE TROVATE ANCHE IL CATALOGO DELLA NOSTRA EDITRICE. BUONA NAVIGAZIONE!

venerdì 29 maggio 2009

La comunità europea della settimana: CES.

Di questo ecovillaggio ho parlato in un articolo per il mensile ecologico AAM Terranuova, di cui riporto, di seguito, uno stralcio:
disabitato d’inverno, variamente vissuto d’estate, Ces, a 1450 m.s.m., risuona dello sciabordio di un’impetuosa cascata-mantra.
Dal sedicesimo secolo al secondo dopoguerra, tante famiglie contadine si avvicendano nelle venticinque case in pietra; poi le allettanti comodità del mondo moderno sradicano anche i più volonterosi.
Ces viene dunque abbandonato ai camosci, fino a quando, all’indomani dei moti sessantottardi, giovani della vicina cittadina di Locarno, organizzati in una “comunità di ricerca” (politica, ecologica e sociale), decidono di avventurarsi in un’ardua azione di recupero.
Nei loro intenti, ancora attuali, Ces sarà luogo di un progetto alternativo “aperto”, dove la cristallina selvaticità dell’ambiente possa coniugarsi alla ricerca di una purezza interumana.
A partire dal 1972 vengono organizzati diversi campi estivi che coinvolgono giovani a livello internazionale. L’anno dopo viene formalizzata la “Fondazione per la rinascita di Ces” che ha tuttora, con i suoi 35 membri, la responsabilità del borgo montano.
Oggi le case sono in buona parte ristrutturate e fornite tutte di pannelli fotovoltaici. In molti casi si sono mantenuti gli originali tetti in pietra mentre gli interni sono stati rivestiti in legno.

CES
6747 Chironico, Canton Ticino, Svizzera.
E-mail ces.org@svizzera.org

venerdì 22 maggio 2009

VANDANA SHIVA – L’ORO VERDE DELLA TERRA

E' con molto piacere che condivido con i lettori di questo blog-magazine il seguente articolo sulla fisica indiana Vandana Shiva, comparso su La Repubblica il 12/5/2009.
L'articolo mi è stato girato dagli amici di italiaindiana, della "fratellanza" di Viverealtrimenti .


In Gran Bretagna, durante la stesura degli Enclosure Acts, Tommaso Moro scrisse: «Le pecore mangiano gli uomini». La terra fino ad allora coltivata per l’esclusivo sostentamento alimentare spariva a poco a poco in favore degli allevamenti per produrre lana e materiale grezzo destinato ai proprietari terrieri e delle fabbriche.
«Oggi sono le macchine che mangiano gli uomini» racconta Vandana Shiva.«La terra è destinata alla costruzione di autostrade, parcheggi o altre infrastrutture, l’estrazione del ferro e della bauxite sta distruggendo gli ecosistemi e le trivellazioni per estrarre il petrolio divorano altra terra». Nel suo ultimo libro la famosa scienziata Indiana lancia un accorato appello riassunto già nel titolo: Ritorno alla Terra (Fazi, prefazione di Carlo Petrini, pagg. 250, euro 18,50).
Una visione radicale la sua. Shiva predica una drastica riduzione dei combustibili fossili, privilegiando energie rinnovabili o addirittura animali, la fine delle monocolture e degli Ogm per tornare a un’agricoltura biodiversa, non intensiva e senza fertilizzanti chimici. La famosa scienziata Indiana, che partecipa insieme a Ralph Nader e Jeremy Rifkin all’International Forum on Globalization, vorrebbe che ogni comunità locale tornasse ad avere una sua autosufficienza alimentare, riuscendo quasi ad abolire i food miles, il viaggio compiuto dagli alimenti fino al piatto dei consumatori, che rendono i contadini dipendenti dalle esportazioni e contribuiscono all’aumento dei gas serra.
«Ci sono molti esperti che ancora mi criticano, sostengono che le mie teorie sono velleitarie e che ci riporterebbero all’epoca preindustriale» ammette Shiva che giovedì 14 Maggio era a Bologna per una lezione del ciclo Regina pecunia dal titolo La maledizione dei poveri. Eppure l’emergenza alimentare è tale che finalmente occorrerà prendere in considerazione anche le soluzioni più creative». Il prezzo del grano è aumentato del 130 per cento negli ultimi due anni, quello del riso raddoppiato. Nel 2008 per la prima volta da tempo, ci sono state trentatrè sommosse popolari nel mondo a causa dei rincari delle derrate alimentari e potenze come la Cina hanno iniziato a comprare terreni nei paesi del Terzo Mondo per garantire cibo alle future generazioni. «La terra è diventata l’area chiave dei conflitti. E’ una risorsa limitata che non è estendibile. I terreni fertili stanno scomparendo ad una velocità che l’umanità non ha mai conosciuto prima d’ora».
Il saggio che Vandana Shiva ha presentato alla fiera di Torino Venerdì 15 insieme al regista Ermanno Olmi e al fondatore di Slow Food Carlo Petrini è un atto di accusa contro gli “eco imperialisti”: multinazionali e governi che hanno ignorato “le regole di Gaia per obbedire alla logica del profitto”. Il crollo del subprime e la recessione, dice, potrebbero essere l’opportunità per reinventare le nostre economie. «Abbiamo sviluppato un’economia finanziaria centinaia di volte superiore al valore dei beni e dei servizi reali prodotti nel mondo. Mai prima d’ora le azioni di una parte hanno minacciato l’esistenza dell’intera razza umana». Nonostante tutto, Vandana Shiva è ottimista. Il fatto che alla Casa Bianca ci sia adesso un orto biologico e un presidente “green”la rassicura. «Ma occorre stare attenti alle pseudosoluzioni, che sono soltanto palliativi». Contraria per esempio ai biocombustibili «che rubano alla terra ai contadini e non risolvono la crisi climatica» questa fisica Indiana di 57 anni sostiene che bisogna «affrancarsi dall’oro nero» favorire una «transizione dal petrolio alla terra». «L’aumento di catastrofi naturali o il rischio di epidemie come la febbre suina – continua — dimostrano che l’uomo non può trascurare, come ha fatto per due secoli, il rapporto con Madre Natura. Abbiamo dimenticato di essere cittadini della Terra e la crisi climatica è una conseguenza del nostro distacco da uno stile di vita ecologico, giusto e sostenibile».
Dura, perentoria, Vandana Shiva è spesso entrata in conflitto con la comunità scientifica e il governo Indiano, come quando ha bocciato la famosa Rivoluzione Verde avviata dal 1966. Vent’anni fa ebbe un'altra idea: conservare semi di molte piante che rischiavano di scomparire «per creare un futuro diverso da quello previsto dall’industria biotecnologia». Nel corso della sua evoluzione, spiega, l’umanità si è nutrita di circa 80 mila piante commestibili. Più di 3 mila sono state consumate in maniera costante ma ora dipendiamo solo da otto coltivazioni (soprattutto mais, soia, riso e frumento) per produrre il 75 per cento degli alimenti mondiali.
«Nelle banche dei semi abbiamo colture, come il miglio, che possono sopportare siccità estreme, un tipo di riso che raggiunge oltre cinque metri di altezza e può sopravvivere alle alluvioni del bacino del Gange, uno resistente alla salinità che abbiamo distribuito dopo il ciclone Orissa o Tsunami». La fattoria guidata da Shiva (in India , ai confini con Nepal e Tibet) è diventata un modello di biodiversità e sostenibilità economica, anche se molti esperti dubitano che si possa applicare sui grandi numeri.«Nella nostra cooperativa agricola – racconta Shiva – le colture non hanno malattie, la terra è resistente alla siccità e il cibo prodotto è delizioso. I buoi arano la terra e la fertilizzano. Abolendo i combustibili dalla nostra fattoria abbiamo scoperto la vera energia: quella della micorriza e dei lombrichi, delle piante e degli animali, tutti alimentati dall’energia del sole».
Nella fattoria ci sono almeno nove colture, Navdanya significa infatti “nove semi” ma anche il “nuovo dono”. «Non importa quante canzoni avete nel vostro Ipod, quante automobili ci sono nel vostro garage o quanti libri avete sugli scaffali – conclude Vandana Shiva -. Cosa resta della vita senza un terreno fertile?». Forse oggi finalmente qualcuno è disposto ad ascoltare questa domanda.

sabato 16 maggio 2009

La comunità della settimana: Villaggio Ecologico Granara

Granara è un caso di “comunità part-time”, dunque dove i membri (fatte salve alcune eccezioni) non vivono ancora stabilmente insieme, pur contribuendo tutti a creare un tessuto comunitario in embrione le cui maglie, più o meno regolarmente (soprattutto in sinergia con le festività e le ferie), si stringono. Il progetto nasce alla fine degli anni ’80 a Milano.
Una decina di ragazzi, di area politica “libertaria”, decide di mettersi in gioco sperimentando un’alternativa di vita rural-comunitaria. Si mettono dunque in movimento, alla ricerca di un posto adeguato e, dopo un paio di anni, trovano un vecchio borgo costruito in sasso locale (nella valle del Taro, vicino alla Fattoria Macinarsi).
Il borgo offre otto case in tutto, distribuite tra “Granara di sopra” e “Granara di sotto” e qualcuno inizia a comprare. Naturalmente i lavori di ristrutturazione non si lasciano desiderare.
Le tecniche adottate sono quelle della bioedilizia e dell’autocostruzione (tentando di valorizzare al massimo i materiali offerti dal territorio) mentre il risparmio energetico è una delle priorità della comunità in embrione. Sui tetti restaurati vengono montati pannelli solari per l’acqua calda, i gabinetti approntati sono a compostaggio a secco e gli impianti di riscaldamento sono prevalentemente a legna (alcuni con integrazione solare e/o di gas). Nel tempo il borgo viene integralmente acquistato.
I proprietari si organizzano in un consorzio che gestisce alcune strutture comuni ed i 100 ettari di terreno. Viene fondata un’associazione, cui aderiscono anche moltisimpatizzanti, dove prendono corpo alcuni gruppi di lavoro. Di questi sono attualmente attivi: il gruppo di teatro (Associazione Teatro Granara)-che da anni promuove un nutrito festival estivo, generalmente di durata settimanale-, il gruppo di educazione ambientale (oggi Associazione Centopassi) -responsabile dei campi estivi per bambini in collaborazione con alcune scuole, l'Associazione Granaio, che attualmente sta ristrutturando alcuni spazi da mettere a disposizione dei visitatori impegnati nelle attività. Tra i progetti in embrione si possono invece citare: la creazione di un centro di salute e medicina alternativa e di uno di documentazione sulle tematiche legate all’ecologia.
C’è inoltre un fortedesiderio di dedicarsi seriamente all’agricoltura biologica, sperimentando anche tecniche di permacultura (il terreno, del resto, non manca, anche se parzialmente ricoperto dai boschi). È tuttavia necessario dare la precedenza ai lavori di ristrutturazioni che, data la predilezione per l’autoapprendimento e l’autocostruzione, avranno probabilmente un decorso lungo.
Al momento vivono stabilmente a Granara otto persone mentre la maggior parte dei proprietari e dei soci vivono il posto nel tempo libero pur avendo, in alcuni casi, il progetto di trasferirsi.
A Granara ognuno ha una propria casa (generalmente da finire di ristrutturare) e dunque la dimensione privata ha una consistenza maggiore che non in quelle realtà dove iresidenti hanno come spazio personale una stanza. La dimensione dei gruppi di lavoro tende a spezzettare un po’ il tessuto comunitario. Per bilanciare, i membri di Granara tendono generalmente a condividere i momenti dei pasti ed anche la dimensione del lavoro viene fatta spesso oggetto di condivisione. Granara non è una realtà isolata sul territorio.
Sono buoni i suoi rapporti con i contadini locali e con altre esperienze di “esodo dalla città” (prime tra tutte la Fattoria Macinarsi). Allo stesso tempo, la comunità in embrione mantiene relazioni solide, di collaborazione e mutuo appoggio, con la cooperativa Alekoslab ed il già citato centro Tai a Milano, con un negozio di prodotti biologici a Pontremoli, in provincia di Massa (dove è anche attivo un gruppo d’acquisto solidale) e con la libreria per ragazzi Libri e formiche di Parma. Interessante segnalare, in chiusura, che il gruppo fondatore, in oltre quattordici anni di sviluppo del progetto, non ha conosciuto alcuna defezione.
È invece cresciuto il gruppo di simpatizzanti, che collaborano in vario modo e quello dei bambini (una dozzina circa) che non manca di vivacizzare il borgo parzialmente recuperato.

Villaggio Ecologico Granara
Via Granara 38, 4305 Valmozzola (PR)
Tel. 052567251-052567600.
E-mail villaggio@granara.org
Sito internet www.granara.org

martedì 12 maggio 2009

A colloquio con Satvat, artista ed autore de “L’artista interiore”.

Era il “lontano” 1998 ed ero a Poona, in India, per scrivere la mia tesi di laurea in sociologia delle religioni su Osho Rajneesh ed i neo-sannyasin. Ero dunque nell’ashram di Osho, controverso maestro indiano contemporaneo. Era da poco finita la White Robe Brotherood, la meditazione serale e, allo stesso tempo, quotidiano incontro con il maestro anche se fisicamente vivo solo in un video. Vestivamo tutti una tunica bianca. Ero arrivato a Poona da solo ma avevo ritrovato diversi neo-sannyasin di Roma. Satvat, allora Anadi (per chi non lo sapesse il percorso con Osho prevedeva e prevede ancora oggi, pur con minore frequenza, un cambio di nome) e la compagna Meera (allora Abhita) erano tra questi.
Dopo la White Robe Brotherood ci si intratteneva nell’allora Buddha Hall, un ampio spazio pavimentato con un bel marmo bianco e sormontato da un tendone ugualmente bianco, a meditare ancora un poco, a parlare rigorosamente sottovoce o, abitudine tipicamente sannyasin, a concedersi profondi abbracci.
“Allora Anadi” venne e mi abbracciò, malgrado una conoscenza appena superficiale. Le serate passavano spesso in qualche ristorante di Poona, allora molto più sgarrupata, sporca e precaria di oggi. Abbiamo dunque avuto modo, con lui ed “Allora Abhita”, di diventare amici. Il rapporto proseguì a Roma dove loro gestivano un piccolo ma delizioso spazio di meditazione poco distante dalla via Appia Nuova. A pochi metri da Heliotropio, dove si meditava, c’era Incantesimo, dove “Allora Anadi” faceva i suoi splendidi gioielli e talismani energetici e vendeva molti cristalli. Ricordo che, sulla sua scorta, mi innamorai anche io del mondo delle pietre, ne comprai molte ad Incantesimo ed ancora oggi ho modo di goderne i benefici influssi, le “vibrazioni di luce” nel mio ambiente domestico.
Le meditazioni, spesso con il supporto dei cristalli, ad Heliotropio sono state memorabili. “Allora Anadi” aveva qualcosa di un personaggio fiabesco, de La storia infinita. “Allora Abhita” non era da meno, in virtù della sua profonda formazione di ricercatrice esoterica, di una sensibilità e sensitività a dir poco rare che impiegava con risultati a volte eccellenti nel corso di alcune sue personali pratiche terapeutiche.
Io avevo da poco finito l’università e non di rado, in groppa al mio scooter, raggiungevo Heliotropio ed Incantesimo. Comprare un cristallo o partecipare ad una meditazione rappresentavano talora una sorta di alibi. Il movente vero era semplicemente incontrarli, avere un dialogo sdrammatizzato e ridanciano con due persone da cui era facile sentirsi profondamente nutriti. Due ricercatori a tempo pieno, senza compromessi e, allo stesso tempo, senza pretese guresche. Il pomeriggio, la serata potevano anche finire, come spesso accadeva, a “birra e salsicce”.
Il tempo, “grande scultore”, ci fece perdere, un periodo, di vista. Io mi avvicinai, agli inizi del 2000, alle esperienze comunitarie degli elfi, rimanendone profondamente coinvolto. Ricordo uno degli ultimi pomeriggi, prima della provvisoria separazione, discutemmo con “Allora Anadi”, tra le altre cose vecchio fricchettone, della possibilità di vivere in una comune, in maniera frugale, preoccupandosi della sola sussistenza. Lui mi disse una frase di cui constatai in seguito la validità: non mi interessano più le comuni, non mi interessa più quella frugalità. Non voglio perdermi “i lussi” della vita (in questo Osho era stato un grande profeta). Io sul momento non mi trovai d’accordo, fu ancora una volta il “grande scultore”, il tempo, a darmi modo di assimilare il contenuto di quello che mi disse “Allora Anadi” quel giorno. Smaltita la “sbornia emotiva” compresi anche io che la natura, pur grande madre e maestra, con i suoi prodotti dell’orto, il suo profumo di terra e di prato, i suoi paesaggi, la sua aria frizzante mattutina non può bastare, che l’essere umano è giusto si dia l’opportunità di cogliere oltre “il buono” ed “il vero”, anche “il bello”, le bellezze dei suoi simili oltre che della grande madre, che possono avere un prezzo a volte oneroso, che dunque possono essere un lusso, cui, tuttavia, merita ambire.
Alcuni anni dopo, nel 2005, li rincontrai a Piazza della Repubblica, a Roma. “Allora Anadi” aveva ancora cambiato nome, prendendo quello attuale: Satvat e l’inseparabile Abhita era diventata Meera. Io ero, in quel periodo, allo sbaraglio. Uscivo da una relazione difficile, avevo girato l’Italia visitando diverse comunità ed ecovillaggi e cercando il mio posto nel mondo. Avevo affittato il mio appartamento di Roma e mi ero malamente insediato in una antica casa di paese, in provincia di Viterbo. Una casa che recava lo stantio di 400 anni di vita più o meno grama, delle persone che ci si erano avvicendate. Ci abbracciamo di nuovo e ci scambiammo il numero di cellulare, non molto di più, se non la notizia del loro trasferimento ad Orvieto. Io lasciai molto presto il paese nel viterbese per la più appetibile India. Mi innamorai di una maestra di yoga di Varanasi ed iniziai una relazione coinvolgente che continua ancora oggi. Nel corso dei miei ritorni tormentosi e fugaci nella mia casa di paese mi ritrovai, una volta, nei pressi di Bolsena e mi accorsi di essere poco distante da Orvieto. Chiamai Meera e li raggiunsi poco dopo. Satvat aveva allora la voce molto bassa. Gli avevano da poco diagnosticato un brutto male ad un polmone, lo avevano dato per morto ma si erano sbagliati. Lui non portava gravi segni di malessere e non aveva smesso di fumare. Mi raccontarono la disavventura sanitaria e facemmo, malgrado tutto, una bella rimpatriata. Presto ripartii ma non mancai di ritornare, in Italia e anche ad Orvieto. La casa di paese, abbellita dai cristalli, venne anche rischiarata dalla luce di alcune lampade di cristalli himalayani che presi nel loro negozio orvietano. Piano piano cercai di concederle qualche altro “lusso” ed ora sono riuscito a farne un godibile rifugio. Loro vivono ancora ad Orvieto ed ancora sono quotidianamente protesi alla ricerca del bello ed anche del buono e del vero. Ed è all’insegna di questi tre valori che abbiamo fatto questo colloquio, di domande rade e risposte pregne, sulle rupe orvetana, una domenica…

Allora Satvat, presentati!
Sono veneziano di nascita, ho passato l’infanzia a Venezia e sono arrivato a Roma all’età di 14 anni, nel ’68 ed ho vissuto tutti i miti della mia generazione: la politica, sono stato figlio dei fiori, indiano metropolitano, ho vissuto tutte le esperienze di quegli anni cercando qualcosa di nuovo, di diverso, a partire dalla disillusione della politica. Ho cominciato a militare nel movimento anarchico, nella FAI, poi sono passato a Lotta Continua e nella mia sezione, ricordo, c’era Bruno che venne ammazzato al mio fianco, gli hanno sparato, davanti all’ambasciata dello Zaire ed in quell’occasione mi sono reso conto quanto, in questo sistema, siamo trattati come carne da macello ma anche che chi diceva di voler costruire un mondo diverso non si comportava in modo molto dissimile. Mi sono sentito molto usato. Dunque questo ha comportato per me la fine della politica e l’aprirmi a nuove esperienze. Mi sono occupato di antipsichiatria fino ad approdare ad Osho ed alla meditazione. Osho l’ho conosciuto con i primi libri che uscivano in Italia, credo il primo libro uscito in Italia e poi, finalmente, nell’81 sono riuscito ad andare in India. Sono sempre stato un artista, sin da ragazzo. Vivevo un tale conflitto generazionale con i miei per cui non ho mai preso una lira a casa loro. Per vivere, sin da quando avevo 16 anni, facevo alcuni lavori di artigianato che poi andavo a vendere a Porta Portese, all’Università eccetera. A sedici anni avevo già casa mia. Quell’esperienza di vendere per strada, il rapporto con le persone era molto carina. Erano anni diversi, in cui si comunicava moltissimo con le persone, era tutto più facile…non era tutto rosa e fiori perchè mi ricordo che negli anni di piombo era pesantissima l’aria, venivi aggredito per strada…insomma: luci ed ombre ma io ho un buon ricordo di quel periodo. Nel ‘75-‘76 sono entrato a lavorare in una bottega d’arte a Roma dove facevano gioielli. Facevo quello che volevo, non avevo nessun vincolo, anche sul lavoro. Il proprietario aveva visto che ero piu’ che bravo e mi diede carta bianca. Mi pagava poco ma mi divertivo un sacco. Dunque ho iniziato con il legno, poi mi sono allargato all’oreficeria/gioielleria per quanto il mio progetto, sin da bambino, era quello di voler diventare scrittore e pittore. Con la pittura ci ho provato fin da ragazzo, avevo contattato dei galleristi ma io, cercando la liberta’, mi sono presto reso conto che sarei stato tutt’altro che libero e non sarebbe stato facile campare di pittura. Dunque ho cercato di utilizzare la creatività facendo qualcosa che mi desse anche da mangiare. Ho sperimentato vari materiali anche per saggiare le potenzialità che avevano, poi c’è stato un grande innamoramento con i cristalli e le pietre. Ho difatti intuito nelle pietre delle potenzialita’ simboliche, energetiche. All’epoca non si parlava di cristallo-terapia, negli anni ‘70, non se ne parlava minimamente ma io sono sempre stato molto intuitivo dunque queste cose le sentivo e poi penso di aver lasciato dei fili di esistenze passate. Questo mi ha portato in un universo simbolico di un certo tipo. Ad esempio i primi gioielli che ho creato riportavano tutte raffigurazioni alchemiche. Questo senza che io sapessi nulla di alchimia, non ne avevo letto nemmeno sui libri, eppure avevo fatto tutte raffigurazioni alchemiche, ad esempio l’uroboros, il serpente che si morde la coda, il leone e l’aquila ed un giorno che sono entrato in libreria ho trovato un testo di alchimia che le riportava tutte quante. Questo percorso, ormai trentennale, continua tutt’oggi. Ho passato varie fasi, anche rispetto a quello che è il mio rapporto con i simboli, che si sono fatti più rarefatti e poi ho riallacciato tutti i fili per cui mi sono ritrovato a fare lo scrittore, il pittore, l’artista orafo che sono il mio lavoro, la mia vita.

Cosa vuoi dirmi dell’ultimo libro che hai scritto e pubblicato con la Xenia: L’artista interiore?
Io ho sempre avuto questo stimolo a fare, ad esercitare la creatività ma non come fine a se stessa. Quello che io ho, in qualche modo, sempre saputo è che l’uomo crea per conoscere se stesso ed anche per attivare forze di trasformazione, forze alchemiche, energetiche. In altre parole la creazione non è fine ad un prodotto ma è determinata da una fermentazione interiore che esprime energia, la forza stessa della vita. Dunque ogni cosa che l’artista fa, se ha contatto veramente con se stesso — e per questo che io credo che l’artista oggi debba essere un meditatore, altrimenti l’arte diventa un fatto molto triviale cosa che in effetti, nel panorama ufficiale dell’arte, oggi e’ — è come fosse un “atto divino”. Oggi, tuttavia, abbiamo un’arte assolutamente disgiunta dalla vita. E’ un’operazione prosaica, mentale, concettuale. E’ un’espressione di facciata in cui conta l’idea, l’effetto…

La pseudo-originalita’. Mi sta tornando in mente un’intervista che ho fatto ad un artista che e’ anche un baba-pujari, un “ministro del culto” dell’ashram di Cisternino. Siamo andati insieme alla biennale di Venezia

…Io non ci vado piu’ perche’ mi incazzo…

Mi sembra fosse il 2005. Ricordo mi venne in mente quello che mi dicesti un volta dell’arte come vomito, difatti poi avevo scritto un’articolo “arte e vacuita’. Ricordo non riuscivo a trovarci niente di valido mentre i cosiddetti “artisti” cercavano di spacciare per arte delle pseudo-intuizioni che effettivamente erano triviali…
E’ sempre peggio. Io alla biennale non vado più ma sono stato recentemente alla triennale. Comunque è spaventoso. Nel panorama ufficiale sembra che non ci sia proprio più l’arte. C’è tutto questo teatrino mentale che da’ proprio l’idea di una mente che si sta arrampicando sugli specchi per sfuggire alla propria vacuità, creando il dramma…semplicemente per legittimarsi e poi con un edonismo negativo assoluto che è un po’ lo specchio della nostra epoca. In altre epoche probabilmente c’era un’ipocrisia etica, aveva valore qualcosa che poi era moralismo. Oggi non c’è l’esaltazione del moralismo ma di un immoralismo ed è un altro modo per sfuggire da se stessi. Oggi difatti cosa è che ha valore nell’arte? Una trasgressione che poi, alla fine, è la caricatura di se stessa e in cui si va a nascondere un vuoto assoluto. Se tu guardi, nell’ambito della cultura, cosa viene spacciato e cosa e’ successo…nel momento in cui ti rendi conto che l’editoria italiana campa sui thriller più stupidi! Purtroppo pero’ è così e c’è questa assoluta mancanza di verità. Oggi secondo me l’artista, l’arte dovrebbero incarnare una rinascita di verità, partire da un’indagine interiore, per questo “l’artista interiore”. E’ anche importante sottolineare che, alla fine, l’artista non ha importanza come persona, almeno secondo me, ma come canale. Ricordo una cosa molto bella che ha scritto il pittore Balthus. Ad uno che gli chiedeva notizie sulla sua vita ha risposto: Balthus non esiste, esiste solo la sua opera. Questo e’ bellissimo, l’artista deve avere la consapevolezza di essere un canale, il suo mettersi a nudo, la sua ricerca è semplicemente un modo per tradurre la forza della vita. Il libro L’artista interiore è un libro di alchimia creativa e si rivolge non ad un pubblico specifico ma a tutti. Noi pensiamo questo: tutti i bambini disegnano e trovano nel disegno una via eccezionale per alchemizzare determinante pulsioni, difficolta’, eccetera. Ad una certa età la maggior parte delle persone perde questo mezzo e si impoverisce perchè il fenomeno creativo è un’ottima cosa per avere un aggancio con la propria interiorità e sublimare determinate pulsioni, determinate impasse e questo libro, attraverso una serie di esercizi, aiuta tutti a ritrovare questa connessione. Ho scritto, poi, un altro libro per il quale sto ancora cercando un editore: Il tao della pittura. E’ una riflessione sulla natura profonda dell’arte. Per fare questo ho connesso l’antica pittura zen e taoista, giapponese e cinese alla pittura moderna ed occidentale che ha operato, di fatto, qualcosa di particolare. L’arte antica era tutta rivolta all’esterno, verso un modello ideale. In epoca moderna l’artista e l’individuo in generale si sono detti: cosa me ne faccio dei massimi sistemi? Io non mi conosco, posso utilizzare l’arte per guardare dentro di me. Bernard Shaw disse: usiamo gli specchi per guardarci il viso e l’arte per guardarci l’anima. Questa è stata la grande comprensione dell’arte moderna. L’individuo, attraverso il mezzo artistico, ha iniziato a scandagliare la propria profondità. Ci sono state un’infinità di esperienze, a partire dall’astrattismo. Kandinsky per primo, ne Lo spirituale nell’arte, evidenziava il fatto che l’esperienza artistica è sostanzialmente spirituale. Ho dunque visto che si poteva ritrovare un parallelismo illuminante con le comprensioni dell’antica pittura taoista e dell’antica pittura zen perchè anche loro avevano utilizzato il mezzo creativo per riallacciarsi allo spirituale, per farlo emergere come strumento di meditazione e di consapevolezza. Mettere insieme le due cose diventa estremamente illuminante su cosa può essere l’arte per l’essere umano. La mia sensazione è che noi, come esseri umani, abbiamo perso la dimensione dell’arte, per questo non abbiamo più arte. Abbiamo perso il contatto con noi stessi e l’arte come strumento di crescita e percezione, siamo sempre più ottusi per cui alla fine in questo libro, Il tao dela pittura, secondo me si va proprio a chiarire cosa e’ l’arte.

Meera, tu sei la “shakti”, la compagna anche spirituale di Satvat. Come hai vissuto questa esperienza, attraverso di lui e vivendola in prima persona?

Il mio percorso è molto diverso da quello di Satvat però credo che ci sia la possibilita, accanto ad un artista a tutto campo come lui, di crescere tantissimo con tutto quello che lui continua ad approfondire, continua a porgere, a mettere in gioco e questo per me è sicuramente un grandissimo arricchimento anche se credo che abbiamo esplorato le radici in modo diverso. Io ho avuto esperienze personali molto particolari, sin da bambina, perchè non sono cresciuta in seno ad una famiglia ma in una struttura ospedaliera, dove sono stata dagli otto mesi ai 5 anni e mezzo. Questo vissuto, anche se molto sofferto da un punto di vista soprattutto fisico, mi ha spalancato una serie di porte, già da bambina, verso lo spirituale che per me erano già molto chiare. Molto definite e definibili. Già da allora viaggiavo in astrale e vivevo tante situazioni che poi negli anni, crescendo, ho potuto recuperare anche con una forza cognitiva mentre lì erano esperienze dirette di una bambina, senza un apparato mentale che le convalidasse. Poi abbiamo condiviso, con Satvat, l’esperienza con Osho anche se io non ho avuto la fortuna di conoscerlo quando era in vita, per quanto secondo me questo non sia stato un limite anche perché, sempre secondo me, ha un senso tutto suo la questione se una persona incontri o meno nella sua vita un maestro nel corpo o disincarnato. La cosa bella è stata affiancare, perchè da quando sono con Satvat lo affianco, lavorativamente parlando, un artista come lui.

Tu ora cosa stai facendo? Un tempo facevi della consulenza terapeutica, lavorando con persone in difficolta’. Ora oltre ad affiancare lui cosa fai?

Affianco lui ed allo stesso tempo credo che questo spazio in cui estrinsechiamo la nostra giornata lavorativa è aperto a più dimensioni per cui se prima avevo bisogno di un luogo dove esercitare la mia terapia, oggi queste cose avvengono in maniera del tutto spontanea, sinergica, senza un appuntamento, senza un titolo. Ci sono incontri bellissimi con persone che improvvisamente toccano qualcosa dentro di loro, magari solo parlando di determinati argomenti, in maniera leggera, simpatica, poco ufficiale ma accadono cose bellissime per cui diverse persone poi tornano da me per ringraziarmi per aver sciolto alcuni nodi. Cerco di non definire tutto questo ma di lasciar semplicemente accadere…

Per maggiori informazioni segnalo il sito www.satvat.it ed il blog artistainteriore.blogspot.com

venerdì 1 maggio 2009

La comunità della settimana: la comune di Utopiaggia.

Utopiaggia è un’esperienza storica in Italia. Nasce, agli inizi degli anni ’80, come comune grossomodo anarchica composta da soli tedeschi, una cinquantina tra adulti e bambini.
In principio si è tentato di realizzare il sogno dell’autogestione e dell’autosufficienza, vivendo di agricoltura, allevamento ed artigianato in una dimensione marcatamente collettivista.
Nel tempo molte persone si sono allontanate e, per usare un’immagine della saggezza popolare, “molti angoli sono stati smussati”. Oggi ad Utopiaggia vivono stabilmente 19 persone e l’età media è abbastanza alta.
È questo un elemento peculiare ed abbastanza controverso.
Parlando con alcuni comunitari ho raccolto qualche lamentela per l’assenza di “energie giovani”. Allo stesso tempo ho avuto modo di vedere quale piccolo condensato di esperienza di vita in comune, di memoria storica e “maturità comunitaria” sia Utopiaggia.
Oggi, difatti, è sicuramente una realtà di buon livello.
Il posto, una valle incontaminata e selvaggia dove è ancora buona norma guardarsi dai lupi, è semplicemente splendido. Gli edifici sono una villa e due case coloniche. Ho avuto modo di visitarne gli interni e li ho trovati curati ed accoglienti.
Accanto all’estetica troviamo, ad Utopiaggia, una buona organizzazione (sono tedeschi!), la stessa che ha consentito di superare un problema drammatico come l’iniziale mancanza di acqua corrente, scavando pozzi profondi, di approntare comodi gabinetti nelle case (i primi tempi si utilizzavano solamente due bagni ecologici esterni) ed un buon sistema di riscaldamento a legna.
È invece rimasta immutata, rispetto al periodo iniziale, la tensione all’autosufficienza alimentare.
Le tre case hanno, ciascuna, il proprio orto, l’olio è garantito dal sufficiente numero di ulivi mentre pecore e galline garantiscono alla dispensa comunitaria un buon approvvigionamento di latte, formaggio, uova e, saltuariamente, anche di carne.
Da un punto di vista economico ogni comunitario ha una propria economia privata mentre c’è l’immancabile cassa comune per le spese da affrontare insieme. La situazione lavorativa è assortita; alcuni residenti lavorano dentro ed altri fuori della comune.
Gli “interni” hanno fondato una cooperativa agricola ed artigiana.
Tra loro troviamo Ingrid che lavora la ceramica, Ildiko che lavora con i tessuti e Sabine che produce formaggio biologico dal latte di oltre 100 pecore.
Venendo all’aspetto decisionale, ad Utopiaggia ci sono quattro assemblee l’anno in cui le decisioni vengono prese all’unanimità.
Ciò che differenzia un membro di Utopiaggia da un ospite è l’aver voce nelle assemblee ed il diritto ad una stanza. Oggi per diventare membri effettivi occorre versare una quota in denaro ma c’è una buona disponibilità ad accogliere ospiti alla pari per periodi anche abbastanza lunghi.
Credo che, soprattutto i più giovani, possano approfittare di quest’apertura e cogliere l’opportunità di trascorrere un periodo con persone di buona esperienza comunitaria a livello internazionale.
Alcuni membri di Utopiaggia, infatti, hanno avuto modo di soggiornare nei kibbutzim israeliani ed il sociologo Ludwig Schibel, nella comune dall’inizio, ha fatto studi approfonditi di storia e sociologia del fenomeno comunitario.
Nello stesso tempo, ospiti giovani possono portare quel ricambio di energie di cui i comunitari di Utopiaggia sentono, talvolta, la mancanza.

Comune di Utopiaggia
Villa Piaggia 21, 05010 Montegabbione (Terni)
Tel. 0763837020